Sapevo cosa accadde a Longarone negli anni ’60 ma non avevo mai approfondito bene la questione. Mi è capitato di vedere, il film “La Diga del disonore” di Renzo Martinelli. Un bel film che coinvolge, ti tocca nell’animo e che fa male. Dopo aver visto il film e visto che mi trovo in Trentino per alcuni mesi mi sono svegliata con il pensiero di andare a Longarone e alla diga del Vajont.
Certo, può procurarti solo rabbia e allo stesso tempo pena per tutte quelle persone che sono state coinvolte e che non ci sono più.
Rabbia per tante persone che nonostante gli avvertimenti di una giornalista dell’Unità, Tina Merlin, che per prima ha avuto il coraggio di denunciare i pericoli che correvano sia la valle che la sua popolazione. Oltre che essere calunniata per le sue supposte “falsità” fu denunciata per turbativa dell’ordine pubblico.
Fortunatamente fu assolta il 30 novembre 1960 dal giudice Angelo Salvini del tribunale di Milano perché il fatto non costituiva reato e per l’innegabile veridicità delle sue contestazioni.
Tanta rabbia per quelle persone che hanno guardato solamente al profitto fregandosene della montagna che già, per certi versi li aveva avvertiti con scosse di movimentazione delle masse.
Il film ripercorre quanto accadde il 9 ottobre 1963 a Longarone e paesi vicini . Una tragedia che causò la morte di 1910 persone, che si verificò non per incuria ma per profitto. Morirono nella tragedia 487 bambini.
La causa della tragedia fu il distacco dal monte Toc di una frana di 270 milioni di metri cubi che, alle 22:39 del 9 ottobre 1963 precipitò nel bacino artificiale e provocò un’onda alta 200 metri che, scavalcando lo sbarramento della diga, travolse Longarone, Erto, Casso ed altre località.
L’impatto con l’acqua generò tre onde: una si diresse verso l’alto, lambì le abitazioni di Casso, ricadde sulla frana e andò a scavare il bacino del laghetto di Massalezza; un’altra si diresse verso le sponde del lago e, attraverso un’azione di dilavamento delle stesse, distrusse alcune località nel comune di Erto e Casso, e la terza (di circa 50 milioni di metri cubi di acqua) scavalcò il ciglio della diga, che rimase intatta ad eccezione del coronamento percorso dalla strada di circonvallazione che conduceva al versante sinistro del Vajont, e precipitò nella stretta valle sottostante.
I circa 25 milioni di metri cubi d’acqua che riuscirono a scavalcare l’opera raggiunsero la valle del Piave e si riversarono nella parte meridionale di Longarone causando la quasi completa distruzione della cittadina (si salvarono solo il municipio e le case poste a nord di esso) e di altri nuclei limitrofi, e la morte, nel complesso, di circa 2.000 persone. I dati ufficiali parlano di 1.910 vittime ma non è possibile determinarne con certezza il numero: la metà delle vittime che si trovavano all’aperto fu smembrata e polverizzata, e di loro non si trovò nulla.
Ancor oggi il ricordo di quella tragedia è nelle memorie di tutti e anche solo osservando le foto aeree di quel versante (monte Toc), si comprende la grandezza dell’evento.
Si consideri che una frana c’era già stata ancor prima della costruzione della diga. Si trattava di un’antica frana che aveva sbarrato la valle.
Le 1910 vittime riposano nell’attuale cimitero delle Vittime del Vajont. Fu infatti individuato questo sito, per le sue adeguate dimensioni, a poca distanza dal paese di Fortogna – frazione di Longarone – sul quale è sorto in poco tempo uno dei luoghi più tristi della storia del Vajont.
Il cimitero originario contava solamente 1464 croci, di cui solamente 700 avevano nome: la maggior parte delle Vittime infatti non è nemmeno stata riconosciuta. Con la ristrutturazione del cimitero inaugurato nel 2004, sono state collocate 1910 piccole lapidi nel rispetto del numero delle effettive vittime a prescindere dal ritrovamento/riconoscimento delle stesse.